Si sa che il termine supergruppo è spesso abusato o utilizzato come mero gancio commerciale ma nel caso degli Hellbutcher è lecito usarlo senza troppi patemi. Mr. Hellbutcher, che dà nome al combo, è lo storico mastermind dei Nifelheim, mentre i suoi compagni di avventura sono conosciuti musicisti della scena estrema scandinava. Abbiamo Martin Axenrot alla batteria, attualmente in forza ai Bloodbath ed ex Opeth, il bassista Eld dei Gaahls Wyrd e Fredrik “Iron Beast” Folkare, storico membro dei leggendari death metallers Unleashed ad una delle due chitarre. Supportati nientemeno che dalla Metal Blade, oltre che da una campagna di marketing non indifferente, gli Hellbutcher si spacciano per dei blackster duri e cattivi; in realtà il loro è un black metal sì, ma molto edulcorato da sane dosi di thrash ed heavy classico, che può ricordare altri gruppi flirtanti con il mainstream come Midnight, Toxic Holocaust ed Hellripper. Tutte band validissime, a modesto parere di chi scrive, ma a cui probabilmente manca quella primigenia ignoranza e pura violenza che il genere richiederebbe.
Così, la sensazione forte è che questo “Hellbutcher” sia una sorta di sottoprodotto in stile “corporate metal” che sta riempiendo le tasche, tanto per fare due nomi di loro connazionali, di Sabaton e Powerwolf. Lo zampino della Metal Blade si sente forte e chiaro soprattutto nella produzione bombastica e “fastidiosamente” pulita, specie sul versante chitarre. Ed è un peccato, perché gli Hellbutcher sanno anche scrivere canzoni forti, aggressive e coinvolgenti come “Violent Destruction”, “Death’s Rider” e “Satan’s Power”, che però suonano in qualche modo depotenziate da una produzione davvero troppo tenera. A livello di qualità infatti c’è poco da eccepire: il songwriting è vario ed ispirato, frutto evidente del lavoro di musicisti esperti e dotati, così come l’acido screaming di Hellbutcher, sempre bravo nel trovare linee vocali perfettamente azzeccate al contesto.
Bocciamo invece la copertina di avvilente banalità che fa il paio con dei testi che pescano dal bigino di satanismo, blasfemia e oscurità all’acqua di rose. Azzardando un paragone cinematografico, se fosse un prodotto audiovisivo questo album suonerebbe molto più simile ad una stagione di “Stranger Things” piuttosto che ad “Hellraiser”; un prodotto cioè ben confezionato e accessibile alla massa, ma sostanzialmente innocuo e con scarsa personalità. “Hellbutcher” è comunque un album che si fa ascoltare volentieri ed è facile che finirà per mietere consensi, inserito com’è nella logica di una musica di consumo che però rischia di farsi dimenticare in fretta come l’ennesima stagione di una serie tirata troppo per le lunghe.