Lo dico subito molto chiaramente: non è per nulla facile descrivere un disco dall’approccio “sperimentale” come questo, che si rivela sfuggente ma al tempo stesso sostanzialmente inquadrato nell’ambito di un genere comunque ben delineato e definito. Stiamo parlando di quel recinto sonoro che si estende tra harsh noise, power electronics, death industrial, black magic dungeon e ambient dal sapore rituale, nel quale queste sonorità, variamente declinate, si confondono in spessi strati nebbiosi e si sovrappongono, azzannandosi l’un l’altra, fino a cancellare di fatto i reciproci confini. Dodssang Tempel è un progetto di cui sappiamo poco o niente, a parte l’insospettabile provenienza: non le fredde e desolate lande scandinave, come si potrebbe pensare, ma la calda California, che tutti ci immaginiamo popolata esclusivamente da procaci ragazze in bikini accompagnate da baldi e biondissimi surfisti. Il sole cocente di quella terra ha invece partorito questo “Old Witchcraft”, che si presenta con una copertina al tempo stesso affascinante e inquietante e che farà la gioia di quanti amano torturarsi i padiglioni auricolari con roba tipo Abruptum, Brighter Death Now, MZ412, Raison D’Être, e più in generale con le varie nefandezze “musicali” alle quali la Cold Meat Industry ci aveva abituato nel corso degli anni novanta.
Con la differenza che il nostro amico (suppongo infatti si tratti di una one man band) resta tutto sommato fedele ad una forma canzone piuttosto tradizionale, pur se interpretata attraverso suoni poco convenzionali per il fruitore medio di metal. Linee di synth semplici e costantemente oscure, pattern ritmici a tratti ossessivi e tribali, sovrastati spesso e volentieri da momenti rumoristici dal piglio decisamente necro, passaggi più abrasivi e altri invece più sognanti, samples rubati chissà dove e note a volte “cosmiche” e celestiali (si fa per dire ovviamente), il tutto contornato da un immaginario e da un concept occulto ed esoterico di stampo satanico, come suggeriscono le foto promozionali, veicolato anche dal cantato che è quasi sempre filtratissimo e demoniaco ma si lascia anche andare a sprazzi in clean salmodianti che emulano cori “gregoriani” (da qui, credo, l’accostamento agli Urfaust contenuto nella descrizione promozionale).
Ogni canzone è, o dovrebbe essere, un incantesimo sonoro che guida l’ascoltatore in una sorta di percorso iniziatico il cui fine resta poco chiaro e avvolto nel mistero. È un’esperienza musicale a suo modo estrema, sicuramente più di molti album black metal fatti con lo stampino, che dietro la sottile corazza della coerenza e dell’attitudine si rivelano sbiadite e noiose fotocopie (di fotocopie di fotocopie). Pure questa roba però, che con il black metal ha sempre avuto una certa affinità tematica e concettuale, ha ormai inevitabilmente superato, e da molti anni, la sua fase pionieristica, perdendo parte della carica dirompente e dell’imprevedibilità che aveva agli inizi, ed ecco perché nell’incipit ho usato il termine “sperimentale” tra virgolette.
Quello che sto cercando di dire è che, se avete un minimo di dimestichezza con le sonorità in questione, questo “Old Witchcraft”, pur essendo un disco molto ben fatto nel suo genere, non potrà stupirvi del tutto e probabilmente non vi farà lo stesso effetto e non vi lascerà lo stesso brivido lungo la schiena di quando avete ascoltato per la prima volta “In Nomine Dei Nostri Sathanas Luciferi Excelsi” nel buio della vostra camera. Ma del resto questa è la natura delle cose. Comunque è un bel trip, acido e immersivo, che, stupiti o no, non vi lascerà del tutto indifferenti, e questa è già di per sé una nota di merito.