Burzum è il nome che forse più di ogni altro è presente all’immaginario collettivo quando si parla di black metal, non solo per la sua musica ma ovviamente per tutta la sua incredibile storia, ormai diventata leggenda, nel bene e nel male. Per chi ne avesse perso le tracce, può valere la pena fare un piccolo ripasso degli ultimi anni di carriera di uno dei più celebri e controversi musicisti della storia del metal estremo e non solo. Dopo aver scontato la sua pena, il buon Varg si è trasferito in Francia, si è sposato, ha fatto talmente tanti figli da perderci il conto, ha cambiato nome legale e fa il contadino. Nel frattempo, aveva aperto un canale YouTube che aveva fatto a suo modo storia (“Let’s find out!”), poi cancellato e gettato nell’oblio dai censori della rete che poco apprezzavano le idee “radicali” espresse da Vikernes. In tutto ciò Varg aveva trovato tempo e modo di continuare a fare musica. “Belus”, “Fallen” e “Umskiptar” ricalcavano con alterne fortune le tracce del vecchio Burzum, mentre gli album seguenti “Sôl Austan, Mâni Vestan”, “The Ways Of Yore” e “Thulêan Mysteries” si distaccavano da ogni parvenza di musica dura per virare definitivamente sull’ambient e il neofolk, il che ricalcava perfettamente il disprezzo verso il metal e i metallari che Varg esibiva puntualmente sul canale di cui sopra. Si tratta dunque di una discreta sorpresa scoprire che il qui presente “The Land Of Thulê”, uscito a maggio 2024 e edito dalla Myfarog Productions, riprende, seppur parzialmente, contatto con il black metal. Non sappiamo se si sia trattato di una scelta dettata da una sincera e ritrovata passione per la musica della sua giovinezza o se siamo di fronte ad una trovata “commerciale” atta a sfamare la sua numerosa prole, fatto sta che Varg è tornato a sfornare musica di alto livello. Si potrà infatti discutere all’infinito sulla personalità a dir poco controversa di Vikernes ma non si può certo negare il suo genio musicale nonché la sua enorme influenza sul genere, con migliaia di cloni in tutto il mondo che continuano ad ispirarsi a lui, nonostante nel tempo sia diventato quasi una figura macchiettistica. Il black metal di “The Land Of Thulê” è ovviamente lontano dalla furia, dalla disperazione, dall’oscurità e dall’odio dei suoi primi lavori, eppure il suo tocco è evidentemente percepibile.
Le composizioni lunghe, ripetitive e ossessive, contraddistinte da melodie melanconiche e sognanti sono il cuore delle tracce migliori del disco, “The Magic Of The Grave”, “The Hidden Name” e “Beyond The Gate”, con quest’ultima a rappresentare il punto più alto dell’album. Il celeberrimo latrato che ha fatto scuola è stato sostituito da declamazioni quasi sussurrate, il che è diventato a sua volta un marchio di fabbrica del Burzum degli ultimi anni. Parliamo di un black metal atmosferico ed ipnotico, come sempre scarno nella sua forma ma stratificato dai proverbiali intrecci dissonanti di basso e chitarre. Chitarre che sono invero poco distorte, così come sono dilatati i tempi, il che da un lato contribuisce a ricreare quell’immaginario di mondo antico e arcano che da sempre affascina il musicista di Bergen ma dall’altro rischia di portare inevitabilmente ad una certa noia. Gli oltre dieci minuti di “The Call Of The Kraken” sono quasi una tortura, mentre le ultime due tracce, “Winds Of The Vanished Realm” e “Memories In The Mist” costituiscono un ulteriore mezz’ora di musica totalmente strumentale con le tastiere in primo piano, in pieno stile “Dauði Baldrs” e “Hliðskjálf”.
Affascinante, inquietante, magnetica, mesmerizzante, ma anche difficilmente digeribile per una platea ormai molto più smaliziata e abituata a queste sonorità. Tirando le somme, “The Land Of Thulê” ci restituisce un Burzum nuovamente vicino alla musica del nostro cuore, ispirato e in buona forma, seppur ovviamente lontano dai picchi di eccellenza dei suoi lavori giovanili o anche dei suoi più recenti come “Fallen”. L’immagine “leggendaria” di Burzum è sicuramente ormai sbiadita, la sua musica però continua a emozionare e a significare qualcosa e sono davvero pochi i progetti di cui si può dire lo stesso dopo più di trent’anni di carriera.