Dopo tredici album e ben ventotto anni di onorata carriera (con qualche alto e basso, ci mancherebbe), non sarebbe semplice per nessuno dimostrare di avere ancora qualcosa da dire, ed invece i Marduk ci riescono in maniera egregia, rievocando ed esaltando efficacemente, attraverso le note di questa loro ultima fatica sulla lunga distanza, la loro mitologia bellica, citando ed in certa misura inevitabilmente riciclando sé stessi ma senza dare l’impressione di dover, come accaduto invece a molti loro illustri colleghi, raschiare il fondo del barile, anzi dimostrando di possedere ancora un entusiasmo da giovincelli ed un’invidiabile freschezza compositiva ed esecutiva. A livello musicale ed iconografico questo “Viktoria” prosegue lungo il percorso stilistico del suo predecessore “Frontschwein” e dunque recupera le sonorità e l’immaginario guerrafondaio di “Panzer Division Marduk” (che, piaccia o meno, resta un disco fondamentale e tra i più imitati in assoluto, apripista indiscusso di un vero e proprio sottogenere), a discapito di alcune influenze più marcatamente religious, immediata conseguenza dell’ingresso di Mortuus nella band ormai diversi anni fa, ben in mostra in lavori come “Serpent Sermon” e “Wormwood” ed in questa occasione invece decisamente in secondo piano. Insomma meno rituali blasfemi e più guerra, tematica da tempo cara a Morgan Håkansson e compagni, qui affrontata attraverso la rievocazione di episodi legati al secondo conflitto mondiale, come già avvenuto in passato. Nella sua durata piuttosto contenuta, di poco superiore alla mezz’ora, “Viktoria” si dimostra un disco asciutto ed essenziale, che al tradizionale e furioso songwriting black, declinato con grande perizia tecnica da parte di musicisti assolutamente sicuri dei propri mezzi, unisce suggestioni più vicine all’heavy classico ed in alcuni casi al thrash di derivazione slayeriana, veicolando il tutto attraverso un’urgenza espressiva che si traduce in episodi affilati come lame di rasoio, che mantengono costantemente elevata la tensione anche nelle rare occasioni nelle quali i nostri staccano leggermente il piede dall’acceleratore per concedersi qualche pausa più cadenzata e granitica. Ma sono gli assalti al fulmicotone ad essere decisamente prevalenti, a partire dall’opener “Werwolf”, che con il suono delle sirene antiaeree ci introduce fin da subito nell’atmosfera belligerante del disco e ne detta immediatamente le coordinate stilistiche, senza fare prigionieri. Tra gli altri episodi sono da citare “June44”, la title track (qui il video ufficiale) e “Narva”, tutte giocate su un riffing insieme nervoso e melodico, ottimamente sostenuto dalla sezione ritmica precisa e chirurgica, appannaggio di Fredrik Widigs alla batteria e Devo Andersson al basso, ed esaltato dal cantato di Mortuus, che è personaggio forse meno carismatico del suo predecessore Legion ma si conferma interprete di razza, in grado di dare corpo e anima ad uno screaming disumano, ora sofferto ora stentoreo, senza privarsi di qualche scorribanda nei territori di un cantato pulito declamato, distorto e dittatoriale, con risultati davvero notevoli, anche nel conferire ad alcuni passaggi un tocco vagamente epico. Non mancano i classici mid tempos (“Tiger I” e “The Last Fallen”), altro marchio di fabbrica dell’ensemble svedese, qui resi con particolare ossessività, senza paura di sfiorare i confini del doom. Menzione particolare infine per le conclusive “The Devil’s Song” e “Silent Night”, per certi aspetti canzoni agli antipodi, che rendono evidente la capacità dei Marduk di costruire pezzi tradizionali e black al 100% ma anche di sperimentare soluzioni in parte diverse, pur se già adottate qualche vota in passato: la prima è una song decisamente lineare e ficcante, costruita su una struttura ed un riffing ampiamente prevedibili, che tuttavia risulta inaspettatamente convincente; la seconda scorre più lenta tra le note del synth, come una funerea invocazione. In conclusione: è vero che i nostri con questo loro ultimo lavoro non azzardano nulla di sconvolgente e vanno sostanzialmente sul sicuro, col rischio di ripetersi (ma con la certezza di accontentare la loro base di sostenitori, più solida che mai), ma questo è in fin dei conti il loro sound identificativo, il loro trademark. I Marduk sono i Marduk e sono immediatamente riconoscibili, nel bene e nel male ( e si tratta di un gruppo che nella sua lunga discografia ha dimostrato di essere molto meno monolitico ed impermeabile ai cambiamenti di quanto possa sembrare a qualche ascoltatore distratto e superficiale): di quanti altri si può dire lo stesso?
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