Sappiamo bene che nella vita ognuno di noi ha delle preferenze; ebbene io ho nella mia top five di case discografiche inserisco di pieno diritto la mitica Hells Headbangers Records, sempre attiva nello scovare i peggiori reietti che il metallo mondiale ha da offrirci, senza mai perdere di vista la qualità sia delle bands, sia di tutto ciò che gravita intorno all’uscita, dal packaging ai vari layout, con una professionalità che va ben oltre la classica impostazione di label underground (senza nulla togliere a nessuno, siamo chiari). La Hells Headbangers Records ha poi una sorta di calamita, la capacità di attrarre a sé quei gruppi che stanno facendo tornare più che mai d’attualità quel proto black metal che ci fa piombare direttamente agli anni ottanta, senza fare troppi giri di parole, con grandiose ispirazioni provenienti dai padri dei padri Venom, così come dai primissimi Sodom, e qualche infarinata dei più acerbi Celtic Frost. Nell’anno del Signore 2018 si è visto davvero un boom, che è stato impossibile non notare, di nuovi adepti con continue e ripetute uscite discografiche (tra tutti i Bonehunter con “Children Of The Atom”, gli Hexecutor con “Hangmen Of Roazhon” e i Deathhammer con “Chained To Hell”, fautori di ottime release), che hanno deliziato i subwoofer delle nostre auto, ci hanno fatto indossare il nostro bel chiodo in pelle consumato, parcheggiato nel nostro armadio dal 1992, e fatto riprendere lo skate che era andato in pensione da circa quattro lustri, per il piacere delle nostre ginocchia. Il 2019 si apre così come si era chiuso il 2018, e i Chainbreaker sono qui a ribadirlo, con una cassa di lattine di birra calda appena acquistata a un discount in una strada statale e l’impianto stereo a tutto volume su un pick up dalle precarie condizioni.
I Chainbreaker non sono sbarbatelli e neppure degli sprovveduti, arrivano direttamente dalla fredda ma bellissima Toronto e di sicuro non sono gli ultimi arrivati. Il progetto prende piede nel 2013, dentro il garage pieno di muffa e poster di donne nude del drummer Al Biddle, ex membro degli speed/thrashersToxic Holocaust e Cauldron, e di Ian Chains, talentuoso chitarrista di questi ultimi. Nata per puro divertimento e per passare del tempo bevendo alcolici e suonando cover dei Razor, con l’ingaggio del vocalist Rob Ouelette e del bassista Phil Zeller (anche lui un tempo in forza ai Toxic Holocaust), la band prende forma e registra prima un ep e successivamente un demo, che non potevano non destare l’attenzione degli addetti ai lavori, per la potenza sprigionata e una marcata attitudine a spaccare i culi.
“Lethal Desire” rappresenta pertanto a tutti gli effetti l’esordio discografico della band, anche se di esordio si può parlare solo in senso lato, visto che molti dei pezzi qui presenti erano già compresi nell’ep “Constant Graving” del 2016. Il disco suona come una locomotiva lanciata a folle corsa, alimentata a rabbia, sangue, calci e urla. Chitarre affilate e suoni che sembrano provenire dal 1984, facendoci fare un balzo indietro nel tempo insieme a Marty McFly e la sua Delorean: i nostri tributano lo storico passato thrash canadese, andando a pescare a piene mani dalla ricetta vincente di antenati come i già citati Razor, senza dimenticare i pionieri Slaughter, Piledriver e Sacrifice. Ogni singolo riff è tagliente come stelline ninja e la velocità è davvero folle, capace di farti svitare la testa a forza di headbanging.
Velenoso come un serpente ma infinitamente divertente, l’album scatena un mini-inno di speed/thrash dopo l’altro, al servizio dell’eterna gloria dell’heavy metal; il tutto compresso in appena 34 minuti che scorrono via come un superalcolico in una persona in preda ad anfetamine, facendo sì che “Lethal Desire” sia la colonna sonora perfetta per bere birra e scatenare l’inferno. Se queste sono le premesse per un nuovo anno all’insegna del thrash più becero e ignorante allora vale il detto: “chi ben comincia è a metà dell’opera”.