Ashbringer – Yugen

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Nel vasto e multiforme panorama post black metal – etichetta un po’ generica che viene affibbiata di recente al metal estremo che ad una base black accosta suggestioni, modernismi e variazioni sul tema di diversa natura – trovano spazio anche gli statunitensi Ashbringer, che partiti come una one man band sono oggi diventati un gruppo a tutti gli effetti, anche se il leader e principale compositore resta l’ex factotum Nick Stanger. Questo “Y?gen” (termine cino-giapponese che significa qualcosa come grazia profonda o bellezza oscura, ma si tratta di un concetto estetico davvero complesso e dal senso sfuggente) è la loro seconda fatica sulla lunga distanza dopo l’esordio “Vacant” pubblicato nel 2015, del quale continua sostanzialmente il discorso stilistico fatto di atmosfere plumbee, malinconia ed introspezione. Accostabili in certa misura ai connazionali Oak Pantheon (anche loro del Minnesota) ed a realtà nebbiose come Woods Of Desolation, Panopticon, Gallowbraid e Caladan Brood, i nostri hanno il merito di unire con disinvoltura e discreto gusto tappeti di riff compatti ed aggressivi con stacchi atmosferici talvolta dal sapore quasi folk (ad esempio nel bel intermezzo strumentale “Omen”), senza mai eccedere in eccessivi formalismi e senza mai strafare. La proposta degli Ashbringer non è del tutto originale (considerando che gli In The Woods, a mio parere, hanno già detto molto di quello che c’era da dire in materia circa una ventina di anni fa) ma la loro musica ha il grande pregio di risultare un’elaborazione personale e di suonare per nulla scontata. L’opener “Solace”, nei suoi oltre undici minuti di durata, mette subito in chiaro le intenzioni del gruppo e ci presenta quello che troveremo anche nel resto del disco, che fluisce come un continuum musicale solo formalmente suddiviso in capitoli corrispondenti ai vari pezzi: urla, esplosioni emotive, stridule trame chitarristiche, break tastieristici davvero ben concepiti ed un continuo contrasto tra aggressività e contemplazione che è il vero elemento vincente di un lavoro che proprio dei contrasti (tra melodie accessibili e passaggi più criptici, tra pesantezza e squarci più rilassanti) fa la sua principale ragione d’essere (ascoltare per credere “Celestial Infancy”, probabilmente il miglior episodio del lotto). Il tutto procede con metodo e grande naturalezza, il che stupisce ancor di più se si considera la davvero giovane età dei musicisti coinvolti nel progetto. Aggiungete una registrazione ed una produzione veramente professionali ed avrete un’idea del piccolo capolavoro che i nostri sono riusciti a realizzare, privilegiando l’impatto emozionale (non disgiunto da una certa cura estetica) e mettendo da parte i vuoti sperimentalismi. Al netto delle preferenze personali, credo che un ascolto questo disco lo meriti davvero.