Malatissima band proveniente dagli Stati Uniti, composta da The Reverend JR Preston alla voce e a tutti gli strumenti e Burke dietro le pelli, i Tjolgtjar giungono con questo “The Tjolgtjarian Mass” alla loro seconda fatica sulla lunga distanza, proponendo un album sopra le righe, a tratti decisamente anomalo, ma sicuramente personale. Racchiusi tra un’intro ed un’outro classicamente ambient, troviamo infatti episodi assai diversi tra loro che denotano coraggio ed eccentricità ai limiti della genialità pura. Alcuni pezzi come l’opener o “Prayer Of The Five Keys” sono schegge grezze e ruvide, dall’andamento monolitico e dal riffing death oriented, in altri casi (“Tjolgtjarium Ritual”) l’elemento tradizionalmente black prevale, dando vita a song violente e fulminee, impreziosite da assoli al fulmicotone. Vi sono tuttavia alcuni brani davvero inclassificabili che rendono l’ascolto ad un tempo interessante e spiazzante: “Acts Of Communion” è nient’altro che un break acustico dai ritmi vicini al flamenco (!), “Curse Upon Our Enemies” presenta sfumature dal sapore vagamente country che sembrano prese di peso dagli Eagles (!!), con un bizzarro alternarsi tra cantato pulito e scream lacerante, l’incipit di “Invoking Our Lord Skuulkuun” è pressoché identico a quello di “The Love Song” di Marilyn Manson (!!!), per finire “The Black Arts Of Vruguun” sfoggia un riff portante niente male, di chiara matrice rock ’n’ roll, che personalmente mi ha ricordato molto le sigle dei vecchi telefilm americani anni settanta-ottanta (tipo Hazzard e simili). Tutte queste stranezze non costituiscono affatto inutili orpelli né rendono questo lavoro poco omogeneo (data anche la scarsa durata totale), ma anzi contribuiscono in maniera determinante a mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore e rappresentano il vero valore aggiunto dell’opera che resta nel suo complesso decisamente oscura e morbosa ed ha proprio nell’atmosfera rituale e nel feeling putrido e straniante i propri punti di forza. I Tjolgtjar sono un gruppo da provare per quanti sono ancora in grado di apprezzare l’originalità non forzata e fine a sé stessa nell’ambito di un genere come il black metal che rischia a volte di risultare stantio. Una bella sorpresa che conferma ancora una volta il buon stato di forma della scena underground d’oltreoceano.
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