“Long Shadows” rappresenta il debutto sulla lunga distanza della one-man band canadese Old Graves, artefice di un interessante black atmosferico, strutturato attorno a un moderno sottobosco stilistico, che dal dark folk arriva fino a certo post-rock strumentale (cfr. “Walpurgisnacht”). Il progetto di Colby Hink prevede infatti il ricorso ad arrangiamenti semplici e immediati, ma giustapposti con coerenza, al fine di rendere i brani, mediamente lunghi, veri e propri percorsi compiuti, con un loro sviluppo interno, raccordati attorno a una ben precisa palette cromatico-sonora. Tale atmosfera non può non scaturire da un intenso rapporto misterico con la natura, per certi versi vicino al cascadian style, sebbene gli Old Graves risultino complessivamente meno ancorati ai dettami black delle origini, e preferiscano piuttosto concentrarsi su una sorta di flusso di coscienza sonoro, in cui le sparute vocals hanno quasi il ruolo di didascalie a fotogrammi naturali (“Teeth Pulled From Gnashing Jaws”), sintetici commenti verbali a sensazioni difficilmente comunicabili a parole, se non ricorrendo a stereotipi e forzature più o meno evidenti. Da premiare in questo senso la scelta minimalista di Hink (e della indie-label Naturmacht, che lo promuove), che dimostra come, anche all’interno dei generi estremi, la trappola della convenzionale forma-canzone sia sempre in agguato, nel complesso rapporto di aspettative e consapevolezza che lega pubblico e artisti. Tutto considerato “Long Shadows” risulta quindi un ascolto consigliato, se non altro per apprezzare come tra ortodossia metallica e innovazione a tutti i costi possa esistere una terza via, quella della frugale essenzialità sonora, se così si può dire.
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