Tornano all’attacco i veterani Marduk ed è di nuovo massacro! I Nostri, portavoce da sempre di un black metal guerrafondaio e belligerante, battezzato di recente dai critici, con definizione forse non felicissima, war black metal, sono senza dubbio una delle realtà più solide, durature e commercialmente in vista del panorama black internazionale, e, dopo una vera e propria rivoluzione della line up, che ha visto l’uscita di scena dello storico singer Legion, sostituito da Mortuus, si ripresentano in forma smagliante con un album che è un pugno nello stomaco in piena regola ed una risposta quanto mai convincente a tutti i detrattori della band. Il gruppo, come tutti sanno attivo fin dai primi anni novanta, era inizialmente fautore di un black metal sì violento ed intransigente ma allo stesso tempo assai sinistro e sulfureo, capace di creare atmosfere da “notte delle streghe”. Il sound della band si è col tempo trasformato, perdendo sicuramente qualcosa in termini di varietà compositiva ma acquistando in velocità, impatto e sicurezza d’esecuzione, in dischi capolavoro come “Haeven shall burn…” e “Nightwing”, fino a giungere all’apoteosi definitiva di “Panzer division marduk”, pietra miliare indiscussa in ambito war black metal (anzi, si può dire che tale definizione sia nata proprio con questo disco), praticamente una sorta di “Reign in blood” suonato a quarantacinque giri, disco amatissimo da alcuni (come il sottoscritto) che ne apprezzano la ferocia iconoclasta e la brutalità fine a sé stessa, e odiatissimo da molti altri, che ne sottolineano invece la carenza di idee e la ripetitività delle soluzione adottate. Qualsiasi sia l’opinione su questo album-spartiacque, si è tutti pressocché d’accordo nell’individuare, dopo di esso, un evidente calo nel songwriting della band ed una preoccupante staticità nel successivo “La grande danse macabre”. I segnali di ripresa però non tardarono a presentarsi già nel discreto “World funeral” e giungono a piena maturazione nel presente “Plague angel”. L’album infatti presenta una manciata di canzoni veramente buone, degne di essere considerate alla pari dei vecchi cavalli di battaglia della band, affiancando alla consueta violenza una freschezza d’ispirazione che sembrava latitare ormai da diverso tempo. Indubbiamente l’uscita (o forse sarebbe più corretto dire la cacciata) di Legion dalla band deve aver portato i suoi frutti, ma credo che il combo di Morgan abbia tratto giovamento da un generale ritrovato entusiasmo e da una rinnovata convinzione in sede di stesura e registrazione dei pezzi: Legion evidentemente non doveva essere l’unico colpevole delle ultime scialbe prove del gruppo, dovute a mio avviso soprattutto ad un songwriting arido e sempre uguale a sé stesso, privo di quel mordente e di quella furia distruttiva che da sempre caratterizza il modo di intendere il black metal di una band che, nel bene e nel male, di questo genere ha comunque contribuito a scrivere pagine importanti. In effetti il cantato ed il timbro vocale di Mortuus non si discostano molto da quelli del suo predecessore se non per una maggiore versatilità ed una più accentuata profondità interpretativa che sa donare alle songs quell’inconfondibile atmosfera marcia e sanguinolenta laddove Legion si era ultimamente appiattito in uno screaming eccessivamente monocorde. Sugli scudi anche la prova del drummer Emil Dragutinovic (che ho apprezzato molto anche nella sua band di provenienza, i The Legion, portabandiera di uno stile palesemente influenzato dagli stessi Marduk), una vera macchinetta che riesce con naturalezza a macinare tempi tritaossa senza un attimo di pausa, conferendo alle canzoni quella velocità senza respiro che fin dalle origini caratterizza il Marduk-style. L’album, accanto alle classiche mazzate, che ricordano molto da vicino l’assalto frontale di “Panzer division marduk” e presentano, a differenza che nel recente passato, riffs ispirati ed efficacissimi (oltre all’opener, le più significative sotto questo profilo sono “Life’s emblem” e la devastante “Warschau”), contiene due mid-tempos dall’andamento epicheggiante (“Seven angels, seven trumpets” e la suite “Perish in flames”), anch’essi in perfetta sintonia con quanto di meglio fatto dal gruppo in passato (canzoni di questo tipo sono ormai un trademark della band svedese fin dai tempi dell’inimitabile “Dracul va domni din nou in Transilvania”), che permettono di rallentare prima che la tempesta sonora riprenda senza pietà. Buono anche l’esperimento di “Deathmarch”, praticamente un brano di musica classica, che contribuisce a sostenere quel flavour epico che caratterizza tutto l’album, composto in collaborazione con la band industrial norvegese Arditi. Ma i Marduk non sono nuovi a questo tipo di contaminazioni: ve la ricordate l’intro di “Glorification of the black god”? Buona la registrazione, grezza ma non troppo e sufficientemente potente, ed ottimo l’artwork, curato in ogni dettaglio e ricco di “suggestive” fotografie. In definitiva un ottimo album che risolleva le sorti di una band che sembrava ormai alla deriva, inserendo un ulteriore, importante tassello nella carriera di un gruppo che, piaccia o no, ha fatto la storia del black metal. I Marduk sono vivi, lunga vita ai Marduk!
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