“Bogefod” è il quarto album sulla lunga distanza per la all-star band black Sarke, nata come side-project di Thomas Bergil (Khold e Tulus) e Nocturno Culto, che per la prima volta ci presentano una sorta di concept, basato su una storia del folkore norreno. In particolare il “Bogefod” di cui nel titolo è Torolv Bogefod, uno dei personaggi dell’Eyrbyggja Saga (it: saga degli uomini di Eyr), raccolta di materiale della tradizione folk islandese, composta nel XIII secolo nella penisola di Snæfellsnes (ci sono stato: bel posto). La vicenda di Thorolf il mezzo-piede tratta in buona sostanza di un draugr, entità non-morta che gli appassionati di Elder Scrolls ben conoscono. Menomato in duello, ucciso, sepolto e risorto come zombie affamato di carne umana (seguendo gli stilemi tipici del soggetto, e della Caccia Selvaggia), lo spirito tormentato di Bogefod ha continuato a tormentare il circondario anche dopo essere stato bruciato e confinato nella terra (nei pressi di Þórsmörk, altro luogo molto affascinante), tanto che nemmeno un uccello può sorvolare la sua sepoltura, senza cadere morto al suolo. Tutto questo corpus storico-letterario, opportunamente riconvertito in lyrics da Hilde Nymoen, moglie di Sverre e da sempre curatrice dei testi di Khold e Tulus. Terminati i cenni storico-letterari, il quarto album dei Sarke suona come sempre piuttosto fresco, nella sua immediatezza espressiva, basata sul valido riffing di Bergil, in bilico fra rocciosi mid-tempo (“Taken”, “Sunken”) e ritmi più sostenuti (“The Wicked’s Transient Sleep”), sui quali la voce ruvida di Nocturno Culto non ha alcun problema a innestarsi. Fin qui niente di nuovo, rispetto agli album precedenti. Dove invece “Bogefod” (in parte) stupisce, è nel raffinato solismo chitarristico introdotto da Steinar Gundersen (non a caso Spiral Architect, Lunaris, ICS Vortex), che regala la necessaria componente melodica ad arrangiamenti invero piuttosto semplici e lineari. La maggior varietà di “Bogefod” rispetto ai suoi predecessori è assicurata anche e sopratutto dall’evocativa sezione acustica di “Barrow Of Torolv” e dalle gelide female-vocals di “Dawning” (courtesy of Beate Amundsen), che contribuiscono a costruire l’atmosfera del racconto popolare, tramandato di generazione in generazione. Purtroppo l’economia generale dell’album non può dirsi del tutto soddisfacente, in quanto, accanto ai validi episodi sin qui citati, sono presenti brani che faticano a lasciare il segno, a causa di strutture e soluzioni fin troppo convenzionali e ormai già sentite, che, unite ad un minutaggio ridotto (si sfiorano appena i 35 minuti), non contribuiscono a impressionare in modo duraturo, correndo quindi il rischio di far scomparire presto dai radar un lavoro che i cari vecchi Sarke hanno invece infarcito di pregi sufficientemente sostanziosi.
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