Mediterranean scene era l’appellativo di un gruppo di musicisti dell’area di Sciacca (Sicilia, dalle parti di Agrigento) che nella seconda metà degli anni novanta diede vita a una serie di interessanti progetti, alcuni dei quali credo ancora attivi, gravitanti nelle varie aree del metal estremo, uniti dalla volontà di dare vita a qualcosa di nuovo, che prendesse le distanze, almeno sotto il profilo iconografico e concettuale, dai consueti stereotipi nordici. Ecco ad esempio l’uso pressoché sistematico dell’antico dialetto siciliano nelle liriche e il ricorso ad un immaginario folkoristico, a leggende ed antiche superstizioni squisitamente locali, cariche di spessore culturale e fascino ancestrale tanto quanto la saga dei Nibelunghi o l’Edda norrena. Tra i molti progetti appartenenti alla scena è d’obbligo citare gli Inchiuvatu, capitanati da Agghiastru, mente e motore dell’intero movimento (anche con l’etichetta Inch Productions, che pubblicava tutti i lavori in questione in un tempo in cui il formato fisico non era stato ancora soppiantato da quello digitale) ed il loro black dalle venature sinfoniche, personale reinterpretazione della lezione di Emperor, Dimmu Borgir e Cradle Of Filth. Mi ricordo con piacere anche il death quadrato e violento di ispirazione floridiana degli Astimi, le bizzarrie elettroniche del progetto Visina, il black/epic/folk dei La Caruta De Li Dei e le deviazioni settantiane e psichedeliche degli Ultima Missa. Dell’allegra combriccola facevano parte anche i Lamentu, trio formato da Liotru (chitarra e voce), Ummira (basso) e Jafà (batteria e percussioni), con il loro raw black metal imbastardito da influenze afro/tribali, composto e suonato in onore di Liak-Aru, demone dalle sembianze di sciacallo appartenente ad una mitologia ormai sepolta dalle sabbie del tempo, sorta di demiurgo che infuse la coscienza nelle scimmie trasformandole in uomini. Già l’immagine dei nostri è quanto di più distante si possa immaginare dal classico war paint: i tre si fanno infatti fotografare come tre stravaganti feticci africani, carnevaleschi officianti di un macabro e sanguinolento rituale voodoo. Musicalmente invece l’accostamento tra metal estremo e tribalismo era già stato tentato, con risultati per la verità altalenanti, dai Sepultura ma in un contesto e con un’attitudine completamente diversi: i Lamentu declinano infatti questo sghembo connubio mantenendo intatto il piglio feroce e iconoclasta tipico del black metal più incontaminato, arricchendolo con innesti tribal-ritual percussivi e tastieristici che si confondono nel grezzume sonoro, ne diventano parte integrante, salvo in un paio di interludi strumentali, dove sono gli unici protagonisti, e ne esaltano enormemente l’atmosfera magica e polverosa, desertica (ottime ad esempio le pennellate di tastiera in “Sceusa”, a mio giudizio l’episodio migliore del lotto). La registrazione è decisamente sporca e artigianale e questo potrebbe essere considerato da alcuni un difetto (la stessa band ebbe a lamentarsene in qualche intervista successiva alla pubblicazione dell’album) ma a mio parere rappresenta addirittura un valore aggiunto, in quanto mantiene integro l’approccio underground del progetto e della musica proposta che risulta in fin dei conti originale nel contenuto intrinseco e nel concept senza per questo dover discostarsi troppo dai sentieri tradizionali e senza dover cedere alla tentazione di divenire necessariamente più accessibile ed accattivante. Se vogliamo essere sintetici e semplificare al massimo, si tratta in fondo di una sorta di folk/black metal, dove l’elemento folk tribale, seppur mai prevaricante, resta davvero tale e lo stesso dicasi per l’elemento prettamente black. Al momento dell’uscita mi piacque molto e anche riascoltato ad anni di distanza “Liack” conserva un fascino primitivo a metà strada tra la sperimentazione e l’ortodossia che me lo fa consigliare a tutti coloro che volessero riscoprire un disco a suo modo pionieristico nell’ambito della scena italiana (e se non pionieristico comunque ad oggi senza termini di paragone, per quanto ne sappia chi scrive), così come gran parte delle opere partorite in seno alla Mediterranean Scene. Per fare del buon black metal d’altronde non è indispensabile vivere tra fiordi e montagne innevate, anche il caldo sole della Trinacria può essere funzionale se ci sono buone idee e la giusta ispirazione. Recuperatelo senza indugio.
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