Io adoro Nattefrost. Ho capito che è un genio quando l’ho visto aggirarsi nel backstage di un concerto dei Carpathian Forest con indosso una t-shirt di Minnie. È bene sottolineare fin da subito che in questo secondo capitolo della saga solista del Nostro non c’è nulla, ma proprio nulla, da prendere sul serio. Si tratta di un divertissement, di una goliardata con gli amici (e infatti qui ci sono veramente tutti a rendere omaggio a Hellcommander: Aggressor, Vrangsinn, Sanrabb, Taaken, Taipan, Dirge Rep, Hoest, Nordavind, Kulde, Joe Ronny Moe, Gunnar Staalseth; se non li conoscete non siete true!) e come tale va intesa, senza aspettarsi più di quello che già ci era stato offerto in occasione del debut “Blood & Vomit”. Ovvero un black metal grezzissimo e minimale, sporcato di punk, con testi da prima elementare che inneggiano a Satana in modo becero che di più non si potrebbe, descrivono stupri di bambine non ancora adolescenti, parlano di alcool, droghe, vomito, fuoco, sangue, torture, sesso estremo, caproni vari e chi più ne ha più ne metta. Senza omettere naturalmente le gustose raffinatezze dell’inarrivabile amico norvegese quali rutti, pisciate molto rumorose, svomitazzate al limite dell’umano e foto da ubriaco nella vasca da bagno che farebbero la gioia di ogni poser. Questo è Nattefrost: prendere o lasciare. Peccato che il confine tra l’ironia sottile e la scemenza più bieca sia molto labile e, a volte, il Nostro terrorista sembri oltrepassarlo pericolosamente e quasi inconsapevolmente, e ciò a discapito della musica. Il fatto è, e mi duole particolarmente doverlo ammettere, che la sostanza compositiva delle songs contenute in questo dischetto è ben poca cosa rispetto alle capacità di un personaggio certamente tra i più rilevanti della scena mondiale. A meno che non voglia prenderci tutti per il culo, il che è assai probabile. D’altra parte non si può non riconoscere la grandezza di una persona che ha il coraggio di scrivere con assoluta noncuranza un verso del calibro di “Satan Is True Black Metal”: signori, tanto di cappello, questa è ignoranza allo stato brado. E allora non ci resta che godere di questo album così come possiamo godere di un film spazzatura anni settanta di quelli con Lino Banfi e Alvaro Vitali (che peraltro oggigiorno sono materia di studio a Hollywood) e riscoprire quel modo cafone e trucido di intendere il black e più in generale il metal che ha fatto la fortuna di una marea di bands (qualcuno ha detto Motorhead?). Personalmente acquisterò il successivo (già pronto) “Untergang – Nekronaut Pt. II” ma spero vivamente che tutta la sua cazzonaggine il buon Nattefrost la sfoghi in questo side project, lasciando intatti per quanto possibile i Carpathian Forest. Il voto che leggete è dovuto più alla mia venerazione sconfinata per il personaggio in questione che all’effettivo valore di quest’opera. E che non si dica in giro che sono un recensore poco obiettivo!
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