Parafrasando il titolo dell’album in oggetto, parto dalla fine. Il privilegio di giocare a carte coperte, in ogni ambito della vita, è per sua natura una condizione limitata nel tempo, cessata la quale è necessario un supplemento di impegno, per mantenere il livello raggiunto in precedenza. Questo per dire che, rispetto al passato, anche recente, contraddistinto da un marcato boom mediatico, ora gli Shining vivono sicuramente (da almeno qualche anno) una stagione di fisiologico assestamento qualitativo. Non si potrebbe del resto pretendere diversamente, da un progetto che ha già espresso con successo il suo valore aggiunto, all’interno del genere in questione, e forse realisticamente non solo, considerati i risultati… Il gioco al rilancio doveva per forza finire, e il precedente “Redefining Darkness” ha dato un chiaro segnale in materia, come una vera e propria ridefinizione dei termini identitari. Anche in occasione di questo nuovo “Everyone, Everything, Everywhere, Ends” non si può certo dire che il buon Kvarforth non sia chiaro nell’esprimere le sue intenzioni, avvalorate anche da una controparte musicale inequivocabilmente differente da quanto espresso sino, almeno, a “Eerie Cold”, disco che ricordo recare in calce una frase come “this marks the end of the black era”… Detto questo, fatta la necessaria chiarezza su contorni e progettualità di un gruppo troppo spesso additato sbrigativamente come selvaggio e sregolato, appare invece tutt’altro scenario, animato da una visione di lungo periodo seria e strutturata, che stride non poco con l’immagine del frontman svedese, a quanto pare ben capace di vendere la sua merce al pubblico (di pecoroni) in cerca di facili sensazionalismi. Kvarforth si rivela quindi ancora una volta un artista lucido e pienamente conscio di come fare a raggiungere, per gradi, senza strappi, i suoi obiettivi. Finito questo prolisso processo formale “Everyone, Everything, Everywhere, Ends” suona però meno aspro e spigoloso del solito, sicuramente routinario nella scelta delle soluzioni compositive, e per questo meno brillante, anche se non privo di momenti convincenti, come “Framtidsutsikter” e “Besök Från I(Ho)Nom”, apici, sopratutto la prima, di un disco basato sul songwriting emozionale della band, quasi una versione blacky dell’attitudine grunge, per certi versi. Lungi da me accostare gli Shining agli Alice in Chains, ma è evidente il ricorso a strumenti compositivi prossimi alla forma-canzone rock, piuttosto che extreme-metal. Fatti tutti questi debiti distinguo, la necessità dei quali vale da sé come valutazione non del tutto positiva del lavoro, il nono capitolo discografico degli svedesi è una conferma su tutta la linea di pregi e difetti, limiti e virtù di un progetto maturato e sopravvissuto a sé stesso, con buona pace dei detrattori, che sicuramente Kvarforth avrà avuto spesso il piacere di incontrare, lungo la strada, come altrettanti cadaveri, vittime degli eventi e della loro stessa mancanza di resilienza. Shining 2015: from the asylum to the countinghouse…
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