Nono studio album per la creatura di Orlok, uno dei pochi gruppi che, in ambito black metal, può vantarsi di avere costruito nel corso degli anni (la band è attiva dal lontano 1992) un sound personale e ben riconscibile. Basta infatti ascoltare pochi secondi dell’opener “My Sword Never Sleeps” per capire di essere di fronte al nuovo lavoro targato Countess. Ritmi cadenzati che raramente sfociano in assalti al fulmicotone, riffing minimale dal sapore bathoryano, produzione ruvida e soffocata, voce demoniaca e filtratissima: tutti gli ingredienti tipici della proposta della one man band olandese sono presenti in questo “Holocaust Of The God Believers”, compresi quegli stridenti ma epicissimi assoli di chitarra “pulita” che più ogni altra caratteristica costituiscono un trademark inconfodibile pressoché di ogni pezzo dei Countess. Nel songwriting di Orlok, che rimane black al 100%, si fa sentire con decisione l’influenza del metal classico degli anni ottanta, tanto nelle aperture melodiche quanto nei rallentamenti più sulfurei; mentre alcune lyrics sono talmente “metalliche” che sembrano uscite da qualche song dei Manowar. Dopo quindici anni di onorata carriera, anche con quest’opera Orlok non tradisce le aspettative e, senza modificare di una virgola il proprio approccio alla materia black, sforna l’ennesimo buon disco, che ha nella title track, nella cavalcata dal sapore medievale “Rebel Stand” e nell’inno blasfemo “Black Metal Storm” i propri migliori episodi. Da segnalare anche la strana “Columbine High Blues”, una sorta di hard rock blues black metal song, il cui testo racconta la nota strage avvenuta nell’omonimo college americano, ovviamente dal punto di vista degli autori; e la conclusiva “Messenger Of The U.W.”, molto lenta e meditativa. Qualche momento di stanca c’è, a causa della ripetitività delle soluzioni adottate, che potrebbe scoraggiare l’ascoltatore meno allenato, e del minutaggio corposo dell’album, ma non si scade mai nella noia. I Countess sono un po’ come i Motorhead o gli AC/DC, fanno dischi tutti uguali ma tutti validi, e vista l’attuale penuria di buona musica, ben vengano lavori come questo.
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