Gli Ulver, tenendo fede al loro monicker, sono i primi, veri mutaforma del panorama estremo scandinavo, e hanno sempre dimostrato un’impressionante capacità di rinnovarsi e innovare, giungendo ad uno status quasi messianico, nel quale ogni loro release ha il sapore di una rivelazione. La prima, grande cesura stilistica nella loro discografia risale però al 1998, anno sul finire del quale venne dato alle stampe “Themes From William Blake’s The Marriage Of Heaven And Hell”, imponente doppio cd in cui il gruppo norvegese si confrontava con la complessa ed enigmatica poetica di William Blake. Nell’inevitabile scelta di metodo fra rivisitazione e frammentazione, i nostri hanno scelto l’impegnativa strada dell’utilizzo integrale, senza cambiare o saltare nemmeno una riga dell’opera, ma adattando la musica a essa. Ci vuole indubbiamente fegato, o della sana follia, per proporre, dopo il grezzo e violento “Nattens Madrigal”, epitome dell’iconoclastia black, un’opera tanto vasta e stratificata, che, per di più, ha nell’elettronica e nel programming industrial (Tore Ylwizaker) un suo cardine essenziale. Ma, ed è un dato di fatto, se si vuole il massimo bisogna essere disposti ad osare il massimo, e il buon Garm (Kristoffer Rygg) non è certamente nuovo a questa lezione, sfruttata appieno nel corso delle sue diverse scorribande musicali (Æthenor, Head Control System, Arcturus, Borknagar). Com’è lecito immaginare “Themes From William Blake’s The Marriage Of Heaven And Hell” è un’opera che vive di alternanze fra luci e ombre, pieni e vuoti, atti a rappresentare anche in musica l’universo concettuale e simbolico di Blake, attraverso interventi solistici e d’ensemble, ma sempre in funzione della componente lirica, cantata, narrata, filtrata, in un’esplosione di caleidoscopici colori mentali e spirituali. Il primo disco raccoglie le composizioni forse più immediate del lotto, ma non per questo meno significative, come “The Argument” e “Proverbs Of Hell”, assieme a vari intermezzi recitati, utili a spezzare il ritmo della narrazione in porzioni più fruibili. Il secondo disco è invece territorio di sperimentazioni elettroniche spinte, a cominciare dalla lunga e oscura “A Memorable Fancy”, per finire con “A Song Of Liberty”, i cui ospiti illustri al microfono (Ihsahn, Samoth, Fenriz) giustificano il ricorso a riff tipicamente black (Håvard Jørgensen, che ora suona in un gruppo pop…), opportunamente immersi in un bagno di effettistica industriale. Oltre alle barriere stilistiche gli Ulver con quest’opera hanno abbattuto anche diversi steccati mentali, sancendo come il metal, anche nelle sue accezioni estreme, sia una forma d’espressione artistica profondamente collegata alla cultura, anche quella con la C maiuscola, sdoganando, di fatto, l’immagine del blackster dal ridicolo stereotipo del capellone col cerone inneggiante a Satana. Per questo, oltre che per il fondamentale lascito musicale dei loro diversi album, non si può che essere grati agli Ulver, licantropi che hanno dimostrato come non ci sia una reale contrapposizione fra selvaggi istinti (black) e fredda ragione (elettronica), quanto piuttosto una funzionale compenetrazione, che va però educata e nutrita con impegno e costanza.
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