A torto poco considerata quando si parla di black metal, Darkmoon è una band statunitense, ormai “trapassata” da alcuni anni, ma che ha saputo, nonostante le poche uscite discografiche, ritagliarsi uno spazio di tutto rispetto nell’underground americano e non solo, grazie ad un sound onesto, di ottima qualità e sotto certi punti di vista anche molto personale. Testimonianza di ciò é questo “Seas Of Unrest”, il lavoro più completo e che meglio rappresenta il sound targato Darkmoon, anche se molte delle canzoni qui presenti non sono altro che ri-registrazioni e ri-arrangiamenti di songs appartenenti al precedente full lenght intitolato “Vengeance From Withered Hearts”, datato 1998. L’album si apre con un’opener magistrale e perfetta sotto ogni punto di vista: “From The Moon’s Mist We Arise”, sette minuti che racchiudono brillantemente tutti gli spunti e le caratteristiche del sound del terzetto americano. Sfuriate veloci come fulmini, accostabili al black metal più tradizionale, dal riffing che ricorda vagamente la gelida e maligna epicità dei primi Immortal, si confondono e alternano con momenti marziali e battaglieri, accentuati anche da sporadici ma efficaci inserti di tastiera e rumori di guerra. Una sorta di estremizzazione dei Summoning, senza però che la canzone risulti troppo dispersiva; al contrario il tutto avviene in maniera naturale e fluida, coronando quindi questa “ From The Moon’s Mist We Arise” come uno dei migliori episodi del lotto. Ma le sorprese non finiscono qui perchè la restante fetta di canzoni è tutt’altro che scialba o deludente. Episodi più violenti si alternano a momenti più cadenzati, sorretti da una produzione che enfatizza soprattutto le chitarre, certamente potenti e sempre impiegate in maniera egregia anche in passaggi tutt’altro che scontati e prevedibili, lasciando in secondo piano strumenti come il basso e la batteria, senza però penalizzare troppo la sezione ritmica, comunque udibile. Le vocals ricordano vagamente lo stile inconfondibile di Abbath e risultano sufficientemente espressive e degne di nota. Anche intermezzi come “Wolf Cry”, “Xul”, e la conclusiva “March Of The Ancients” non annoiano e ben si amalgamano al contesto epico dell’album. Non v’è molto altro da aggiungere se non rinnovare il mio invito a rispolverare questa gemma ormai sepolta dalla polvere del tempo, poiché lavori come questo, di un certo spessore e studiati nei minimi dettagli, non devono essere dimenticati.
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