“With My Art I Am The Fist / In The Face Of God”: questi i celeberrimi versi finali di “To Walk The Infernal Fields”, una delle canzoni simbolo di “Under A Funeral Moon”, opera terza dei Darkthrone, che dà il via ufficialmente alla stagione del “true norwegian black metal”, codificando icasticamente le coordinate stilistiche di un genere che da allora diventerà maniera, vantando centinaia di fedeli imitatori sparsi in tutto il globo. E ciò non solo con riferimento alla musica ma anche all’immagine, alla povertà estrema della produzione, alla semplicità minimale dell’artwork: “Under A Funeral Moon” è il disco che forse più di ogni altro rappresenta la purezza identitaria di un movimento così pieno di contraddizioni, così fieramente legato alle proprie radici eppure così in grado di evolversi in direzioni disparate ed assolutamente imprevedibili. Lasciatesi definitivamente alle spalle le scorie death metal del debutto, ancora in parte presenti nel successivo (ed altrettanto importante per la scena black) “A Blaze In The Northern Sky”, la band norvegese – allora un trio formato da Fenriz alla batteria, Nocturno Culto alla voce e al basso e Zephirous, personaggio di cui si perderanno completamente le tracce, alla chitarra – plasma un sound gracchiante e glaciale come una tormenta di neve nel mezzo della foresta, trascendendo del tutto la lezione di Slayer, Mercyful Fate, Venom, Bathory e Celtic Frost e creando veramente qualcosa di nuovo: una musica nerissima, che sembra essere non soltanto l’espressione di un semplice disagio adolescenziale (all’epoca i nostri erano davvero molto giovani) ma la trasposizione in note dell’autentica essenza dell’odio e della malignità. Fin dall’opener “Natassja In Eternal Sleep” si comprende che i Darkthrone non hanno alcuna intenzione di scendere a compromessi, neppure con i luoghi comuni del metal estremo in voga in quel periodo: un riff scarno fino ad essere elementare e freddo come una lastra di ghiaccio, che si ripete ipnotico ed ossessivo, reso ancora più gelido e tagliente da una registrazione ronzante e zanzarosa – quasi fastidiosa per gli standard dell’epoca – e sottolineato da una cascata di blast beats monocorde, senza sostanziali variazioni; su questo tappeto musicale già di per sè indigeribile, si staglia un cantato demoniaco, lontano e colmo di riverberi, a vomitare sull’ascoltatore litanie blasfeme e cariche di rancore nei confronti di tutto ciò che è luce e vita. E così a seguire, in un crescendo di brani che sono oggi altrettanti inni e classici indiscussi del genere, a dipingere le varie sfumature di un sound oscuro che diventerà marchio di fabbrica di un’intera scena: dall’anthemica “Unholy Black Metal”, vero manifesto concettuale e culturale di ciò che in quegli anni stava accadendo tra le innevate montagne scandinave, alla veloce e trasheggiante title track, nella quale gli echi di “Under The Sign Of The Black Mark” si fanno sentire più che altrove; dalla già citata “To Walk The Infernal Fields”, prototipo di uno stilema formale che da lì in poi verrà qualificato come “mid-tempo alla Darkthrone”, alla claustrofobica e monolitica “Inn I De Dype Skogen Favn”, altro diamante grezzo di notturna intransigenza. Non un cedimento nè alcuna concessione a nulla che potesse anche solo lontanamente considerarsi “normale” (figuriamoci mainstream), neppure in ambito metal. Con zero tecnica e quattro accordi i Darkthrone erigono il più perfetto monumento al disprezzo, all’arroganza e alla misantropia in musica. “Under A Funeral Moon” è senza discussione una pietra miliare: etica ed estetica del black metal, come oggi lo conosciamo.
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