Piuttosto interessante, anche se non privo di pecche, questo esordio sulla lunga distanza per i francesi Astaarth, duo proveniente da Digione, composto da Lord L. Moloch e Lord Gondebaud (entrambi membri anche della raw black metal band Baphomet’s Throne), che, dopo un paio di demo passati piuttosto inosservati negli ambienti underground, approda al full length grazie alla Blood Fire Death Productions, da sempre attenta nel seguire e lanciare le realtà più promettenti in ambito pagan e folk. E la musica proposta dai nostri è proprio accostabile a questi generi, con una certa prevalenza dell’elemento “popolare” rispetto a quello prettamente metal. Molte sono infatti le parti nelle quali la fanno da padroni strumenti tradizionali e acustici come violino, armonica e flauto, che tessono melodie ora delicate, ora malinconiche, ora intrise di pathos tragico, sulla quali la voce femminile si intreccia con quella maschile a creare scenari sognanti e disperati. La misteriosa ed evocativa “The Victorious March” è un ottimo esempio delle potenzialità della band sotto questo punto di vista, ma sono molti gli intro e gli intermezzi degni di attenzione, talvolta epici e marziali, talaltra magici e oscuri, ma sempre curati, ben arrangiati ed impreziositi da una registrazione nitida che permette di apprezzare le sfumature anche tenui dei vari strumenti. Se l’elemento folk, accostabile a realtà forse più note quali Folkearth, Lumsk e, in certa misura, Finntroll, è quello più convincente, le parti prettamente black sono quelle che deludono di più. I riff sono piuttosto scontati, accostabili alla tradizione pagan nordeuropea oppure “rubati” ai Bathory di “Blood Fire Death”, la voce è esageratamente sgraziata ed i suoni eccessivamente grezzi e rochi: il tutto mal si amalgama con le parti squisitamente folk, in modo che le due anime del gruppo, invece di risultare armoniosamente fuse, sono invece semplicemente giustapposte l’una all’altra, il che non giova certamente alla compattezza del risultato finale. A ciò si aggiunga il concept, non particolarmente originale, che narra delle gesta gloriose dei Burgundi (cambia la zona geografica di provenienza, cambiano le radici storiche, ma le tematiche trattate sono sostanzialmente le medesime di centinaia di altri dischi dello stesso genere…). In definitiva questo “Gloria Burgundia” è un debutto che presenta diverse luci ma ancora qualche ombra: la band dovrà migliorare sotto l’aspetto della personalità e, soprattutto, rendere più fluido ed omogeneo il songwriting, onde evitare di annegare nel mare magnum dell’underground pagan black. Nota di merito per l’artwork, davvero curatissimo e suggestivo nei suoi colori caldi ed avvolgenti.
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