Un paio di rotaie nel bel mezzo di un bosco innevato, due scure linee parallele che, con una dolce curvatura, scorrono verso un ignoto orizzonte. Questa l’immagine di copertina di “Kontynent”, esordio direttamente sulla lunga distanza dei polacchi Elixir Of Distress: un’immagine suggestiva e al tempo stesso estremamente sinistra ed inquietante se associata al concept del disco, incentrato sul sistema dei campi di lavoro forzato nell’ex Unione Sovietica, quel labirinto perverso di sommaria giustizia politica, delazione e cieca burocrazia che Solženicyn descrisse magistralmente e senza ombra di retorica in “Arcipelago Gulag” e in molti altri suoi scritti. L’opera in questione ha avuto un’elaborazione assai complicata dal momento che è stata registrata a partire dal 2013 ma vede la luce soltanto oggi sotto l’egida della misconosciuta etichetta Winterheart Music. E ciò a causa dell’instabilità della line up, sulla quale non si hanno notizie precise e che verrà resa nota probabilmente soltanto con la pubblicazione del prossimo disco. “Kontynent” è un lavoro poderoso, composto da cinque lunghe canzoni della durata di circa dieci minuti ciascuna, ognuna delle quali identifica una particolare zona o campo di lavoro della Siberia: un affresco cupo e drammatico, dipinto attraverso un black metal freddo, veloce e crudo, di stampo sostanzialmente tradizionale, intriso però di una palpabile tensione melodica ed impreziosito da un’impronta atmosferica che si manifesta ora con sognanti assoli, ora con soffocanti e disperati rallentamenti, ora con improvvisi squarci acustici carichi di tristezza e malinconia; le vocals, dal canto loro, sono rese attraverso uno screaming sordo e rauco che ben si inserisce nel contesto strumentale, quasi a restituirci una sparuta e sghemba presenza umana in un quadro di totale disumanizzazione. Gli Elixir Of Distress in definitiva non propongono assolutamente nulla di originale ma si dimostrano estremamente abili nel rielaborare in maniera personale suggestioni ed influenze che provengono in egual misura tanto dalla scena classica norvegese quanto da quella polacca della prima metà degli anni novanta (primi Behemoth e Graveland), tanto da gruppi come Emperor e Lunar Aurora per quanto riguarda l’impasto atmosferico pregno di funeste sensazioni, quanto da certa parte del panorama black francese per via di aspre dissonanze che affiorano qua e là nelle trame chitarristiche. In realtà una fotografia minuziosa della musica dei nostri risulta abbastanza fuorviante e a conti fatti piuttosto inutile in quanto ciò che più conta è il coinvolgimento emotivo che riesce a creare con grande naturalezza, non disgiunto da un piglio “narrativo” che ci fa apprezzare il disco nella sua interezza, senza soluzione di continuità tra un pezzo e l’altro. Prova egregia, che merita certamente la vostra attenzione, nella speranza che il successore non si faccia attendere troppo a lungo.
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