Dopo il banalissimo “In Sorte Diaboli” tornano sulle scene i maestri del black sinfonico, quei Dimmu Borgir che negli anni sono stati accusati di essersi venduti al mainstream e di aver abbandonato la scena più estrema. Su questo vorrei dire due parole. Il problema (per i Dimmu Borgir, ovviamente) non è stato tanto il passaggio da una tastiera al poter disporre di un’intera orchestra ma la qualità della loro musica, che è letteralmente sprofondata sotto terra. Ora se ciò è stato causato da maggiori introiti, notorietà, etc sinceramente non mi interessa; come dire, guardiamo ai fatti. Le premesse per questo” Abrahadabra” non sono malvagie: un artwork che sembra riallacciarsi a “Death Cult Armageddon” (ultimo disco decente dei nostri); formazione definitiva a tre membri con guest a completare il tutto (e che guest!); produzione stellare. Dopo un’ intro sinfonica, si parte bene con “Born Treacherous”, che potrebbe stare benissimo in un “Puritanical Euphoric Misanthropia” o in un “Death Cult Armageddon” ma già la seguente traccia farà storcere il naso ai più, quella “Gateways” che puzza di commerciale e di metal-minchiata da video su youtube lontano un miglio. Terribile. La quarta canzone non la citerò neanche per guadagnare tempo (e per evitare altri commenti negativi) e possiamo così passare alla quinta “Dimmu Borgir”. Una canzone autocelebrativa. Allora, l’idea di base non è nemmeno malvagia, con pesanti orchestrazioni e un chorus da stadio, ma risulta alla lunga pacchiana. Il resto dell’album è purtroppo un’accozzaglia di soluzioni banali che ci spinge a skippare inesorabilmente verso l’agognata fine del disco. Un buon prodotto, un bel prodotto, suonato bene e registrato meglio, che resta tuttavia nient’altro che una scatola vuota.
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