A circa un anno dalla pubblicazione del precedente “Happy Days” esce la nuova fatica sulla lunga distanza dei bolognesi Malnatt, band che nel corso degli anni ha saputo ritagliarsi il suo spazio nell’affollato panorama underground, grazie ad un’attitudine folle e ad un piglio ferocemente satirico nei confronti della materia black. Sotto questo aspetto, ed anche per quel che riguarda il lato prettamente musicale, questo album costituisce senz’altro una svolta per il combo italico. Accantonati gli atteggiamenti ironici, i nostri affrontano un concept incentrato su alcuni componimenti poetici di autori defunti (la voce dei morti, appunto) per riproporre emozioni e sentimenti da essi descritti, nella convinzione, invero un po’ sconfortante, che tutto sia già stato detto prima e meglio da altri, e che a noi non resti che prendere atto dei pensieri espressi dai grandi che ci hanno preceduto. I testi sono infatti tutti costituiti da poesie di autori italiani (per la precisione, “Fantasimi” di Giulio Pinchetti; “Novembre” di Giovanni Pascoli; “Penombre” di Emilio Praga; “Chi Sono?” di Aldo Palazzeschi; “Sono Una Creatura” di Giuseppe Ungaretti; “E Come Potevamo Noi Cantare” di Salvatore Quasimodo; “Piangi Tu Che Hai…” di Gabriele D’Annunzio), oltre ad una lirica, l’unica in lingua inglese, di Emily Dickinson (“I Felt A Funeral”) e alla strumentale di chiusura. Sui testi viene costruita la musica, che si sostanzia in un black metal maturo, dai suoni moderni e profondi, graziato da una produzione limpida e potente che sottolinea soprattutto le nervature di una sezione ritmica corposa e chirurgica. La band nostrana si allontana dallo stile folk adottato finora con alterne fortune, e si accosta a sonorità vicine, per certi versi, alla vecchia scuola norvegese, per altri, ai Vintersorg e agli ultimi Enslaved, laddove permangono venature pagan non del tutto abbandonate. Non manca neppure qualche riferimento alla lezione degli ultimi Satyricon, specie dove il songwriting diventa più secco, essenziale e stentoreo. Questa evoluzione, o semplice trasformazione, risulta interessante soltanto a tratti, quando i nostri riescono a concepire riff efficaci e groovy, come quello posto in apertura dell’opener o quello portante dell’up tempo “Chi Sono?”, caratterizzata da ritmi spezzati che in qualche modo ricordano l’antimetrica di matrice futurista. Per il resto sono gli episodi più legati al “vecchio” stile del gruppo quelli meglio riusciti, anche se non si può affermare che i Malnatt di oggi suonino semplice pagan black metal, perchè evidenti sono le influenze psichedeliche e perfino progressive che costellano molti pezzi. Ne è un esempio la malinconica “ Penombre” sulla quale pare aleggiare l’ombra degli Otyg o degli ultimi Borknagar. Il cantato di Porz è decisamente più espressivo nelle parti in screaming, dal tono quasi “dittatoriale”, che in quelle recitate in clean vocals. Con questo lavoro i Malnatt hanno dimostrato una volta di più di essere una band capace di rischiare, che non si adagia sugli allori ma che tenta di percorrere nuove strade. In un ambiente spesso asfittico come la scena black attuale, questa è una qualità non da poco. E perseverando credo che i nostri potrebbero anche arrivare al capolavoro.
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