A ben quattro anni di distanza dal precedente “The Polarity Axiom” del 2004, esce la nuova fatica sulla lunga distanza dei finlandesi Alghazanth, che giungono con questo “Wreath Of Thevetat” al loro quinto full length. I nostri sono un gruppo di consumata esperienza, essendo sulla scena dal lontano 1995, ed anche in questo album danno prova di buone capacità in fase di songwriting, unite ad una discreta tecnica, che rendono i pezzi interessanti e di sicura presa sull’ascoltatore. Il genere proposto è quello consueto: black metal sinfonico dalle sfumature melodiche e dalle aperture atmosferiche di ampio respiro, con quel tocco di insana follia che sembra costituire il marchio di fabbrica di tutte le uscite estreme provenienti dalla terra dei mille laghi. Quello che manca a questa release è la genialità cristallina che aveva caratterizzato i primi lavori della band e soprattutto l’esordio del 1999 “Thy Aeons Envenomed Sanity”. Il riffing è accattivante al punto giusto ed alterna con buon gusto sfuriate gelide e nichiliste a passaggi rallentati che non sfociano mai in mid tempo death oriented, mantenendosi su coordiante puramente black metal. Intelligente è anche l’uso delle tastiere che sottolineano con efficacia i passaggi più carichi di pathos, senza mai alleggerire il sound né scadere nel patetico. La produzione è graffiante e potente ma resta grezza e rifugge le soluzioni iper pompate alle quali ci hanno abituato alcuni arcinoti gruppi negli ultimi tempi. Insomma, il symphonic black metal degli Alghazanth è (per fortuna) quanto di più lontano dagli odierni Dimmu Borgir si possa immaginare e resta ancorato agli albori del genere, avvicinandosi per alcune soluzioni ai connazionali Enochian Crescent e Funeris Nocturnum. Ai nostri va quindi senz’altro riconosciuto il merito di aver rispolverato le sonorità del black metal sinfonico tradizionale in un periodo di chiara decadenza di questo filone, fino a qualche anno fa sulla cresta dell’onda. “Wreath Of Thevetat” presenta però diversi momenti di stanca nei quali l’incedere dei brani perde di mordente ed incisività risultando stantìo e scolastico: ad esclusione dell’ecelttica opener, di “The Phosphorescent”, scelta come singolo per anticipare l’album, e dell’ottima “Future Made Flesh”, ben bilanciata in un caleidoscopico alternarsi di emozioni, le altre canzoni si attestano su livelli semplicemente decorosi, pur senza eccessive cadute di tono. Un disco discreto, da ascoltare con una punta di nostalgia, che non riuscirà comunque a risollevare le sorti di un genere che sembra ormai inevitabilmente condannato, con qualche rara eccezione, a vivere nell’ombra di un glorioso e ingombrante passato.
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