Terza ed insolita release per i Vultyr, duo composto da due loschi individui che rispondono al nome di Godslayer e Spectre i quali si dividono equamente il lavoro di songwrinting e di stesura dei testi ed ai quali quindi andranno equamente distribuiti elogi e critiche per il presente dischetto. Si, perché i Vultyr, dopo due albums di black metal tradizionale e canonico di discreta fattura (“Monument of misanthropy” e “Bleed for Vultyr”), hanno deciso di dare una netta svolta alle proprie direttrici musicali, ed in questo “Philosophy of the beast” ci propongono un misto inqualificabile di black metal (poco, per la verità), punk, heavy metal, e rock n roll (al limite del glam, oserei dire: ascoltare per credere il riff iniziale di “Vultyr culture”). Eppure, anche in questo guazzabuglio, l’innegabile classe del gruppo si può notare nell’intelligenza di certe soluzioni tecniche e nell’attitudine sorniona ed ironica, paragonabile a quella che ha reso famosi gli Impaled Nazarene o a quella del Nattefrost solista. Infatti il disco prende, è godibile e si lascia ascoltare fino alla fine senza particolare impegno ma anche senza stanchezza. Le songs sono tutte piuttosto brevi (e questo senz’altro favorisce l’immediata fruizione di questo lavoro), molto strutturate ed easy listening, ripetendo la classica formula: strofa – ritornello – strofa – ritornello. Ma i Vultyr non si adagiano su questi stilemi e, pur costruendo canzoni semplici e sicuramente punk oriented, sanno spiazzare l’ascoltatore inserendo qua e là ora un assolo melodicissimo (“Death of the self”), ora un arpeggio armonico prima della ripresa finale della canzone (“Murdered and undone”) e riuscendo nel non facile intento di creare musica semplice ma mai scontata e scialba. Qualcosa di simile a quello che, anni or sono, avevano cercato di fare, con risultati alterni, i francesi Demoniac in “Stormblade” (chi se li ricorda?). Molto originale è l’uso delle vocals che alternano uno screaming rauco e urlato ad un cantato semi-pulito, molto alto e dalle tonalità quasi declamatorie. Il coraggio, la versatilità e la voglia di sperimentare, pur restando nell’ambito di certi canoni ben definiti, di questo gruppo va sicuramente apprezzata, anche se i Vultyr a volte indugiano un po’ troppo sulle soluzioni trovate, risultando a tratti stucchevoli e ripetitivi (ad esempio in “Red light dungeons” o in alcuni episodi più lenti e cadenzati come “Life’s oppression”). La produzione è grezza ma non impedisce di distinguere il suono dei diversi strumenti (forse la batteria è un po’ penalizzata) soprattutto l’andamento gracchiante e zanzaroso delle chitarre. Episodi migliori del disco sono certamente la title track e la conclusiva “Dark forest necromancer”, due autentiche mazzate punk-black senza compromessi. In definitiva un lavoro personale, che nella sua efficace semplicità potrebbe fare la felicità del buon Satyr, con più luci che ombre, che traccia le direttive che, credo, la band intenderà seguire anche in futuro, se non deciderà di sorprenderci ancora con un altro brusco cambiamento di sound.
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