Ophthalamia: un nome che forse non dirà molto a quanti si sono accostati al black metal soltanto nell’ultimo decennio senza approfondire le origini del genere. I nostri si formarono in Svezia nel lontano 1989 per volere degli allora giovanissimi It e All (membri dei più noti Abruptum e Vondur), con l’intento di raccontare le leggende del favoloso regno di Ophthalamia (concept su cui sono basate tutte le liriche del gruppo) creando una musica che unisse le atmosfere glaciali del nascente black di marca scandinava con il feeling opprimente e disperato del doom di scuola sabbathiana ed alcune fughe heavy metal di stampo ottantiano. Il risultato é questo “A Journey In Darkness”, debutto sulla lunga distanza che resterà ineguagliato per qualità ed originalità dalle successive uscite discografiche del gruppo (i comunque validi “Via Dolorosa” e “Dominion”). Non siamo di fronte ad un capolavoro universalmente riconosciuto, bensì ad uno di quei dischi controversi, idolatrato da alcuni e bistrattato da altri. Collocando quest’opera nel contesto musicale nel quale fu concepita non si può però non ammirarne la freschezza compositiva e l’unicità che la rese così particolare nell’ambito del panorama estremo dei primi anni novanta. Le soluzioni tecniche adottate, benché tendano a ripetersi pressoché identiche per tutta la durata dell’album, sorprendono per la capacità di creare punti di contatto tra universi musicali fino ad allora assolutamente distanti come il black ed il doom, in un equilibrio perfetto, tenuto insieme da un lato dalle avvolgenti melodie chitarristiche e dall’altro dall’ugola rauca di Jon Nödtveidt, che qui utilizza un timbro vocale decisamente più cupo e ovattato rispetto allo screaming più classico adottato nei Dissection. Notevoli sono le influenze del metal più tradizionale che si fanno sentire sia nei riff portanti sia negli assoli che costellano i pezzi, caratterizzati a tratti da una certa vena progressiva e settantiana che non risulta però mai preponderante. La maggior pecca dell’album é rappresentata dalla registrazione che, benché curata da Dan Swanö, é decisamente troppo soffocata e poco potente non solo per gli standard attuali ma anche rispetto alla media delle produzioni underground dell’epoca (ecco perché il disco fu riregistrato e ripubblicato nel 1998 con alcune bonus tracks e con il titolo di “A Long Journey”). Al di là di ogni alone di “culto” che si é costruito intorno a quest’album nel corso degli anni, siamo di fronte ad un lavoro che vale sicuramente la pena di riscoprire assaporandone le atmosfere lugubri e malevole e riconoscendo la capacità dei musicisti coinvolti in questo progetto di aprire nuove vie al metal estremo, vie che saranno percorse da diversi altri gruppi (penso ad esempio ai Diabolical Masquerade dell’esordio o, per certi versi, ai primi Katatonia).
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