L’essenza del black metal primordiale contaminato da sprazzi di lucidità prende il nome di Graveborne. Si dice che il terzo album sia quello della maturità ma i Graveborne suonano in maniera primitiva già dal primo demo del 2009 “Astride Over The Grave”, unendo le caratteristiche del black made in Norvegia a quelle più prettamente deprimenti e riflessive finlandesi, creando una dimensione assolutamente eterea e trascinante in lande di perdizione e paranoia. Di sicuro, a oggi, “1918” rappresenta il lavoro più ambizioso della band che racconta, attraverso un concept album, la guerra civile finlandese, combattuta tra il gennaio e il maggio del 1918. In questo ultimo malvagio parto di sicuro l’aspetto melodico è ciò che è stato maggiormente enfatizzato a livello di songwriting, senza tralasciare il retrogusto di negatività e sporcizia che caratterizza sin dagli esordi i Graveborne. C’è da dire che la produzione ha subito una leggera metamorfosi, suonando ancora più fredda e sporca ma senza mai compromettere la resa del platter, anzi, enfatizzando quella sensazione di malessere che i nostri vogliono trasmetterci con le loro songs, per raccontarci gli avvenimenti di quei mesi di guerra. Altra parziale novità è il completo abbandono dell’inglese a favore della lingua madre in tutti i brani del disco, che aumenta ancor più l’impatto emotivo. Per quanto riguarda il resto, qui abbiamo a che fare con black metal nel senso stretto del termine, senza contaminazioni, tastiere, violini o cazzate simili, le trovate da circo per andare incontro al gran pubblico qui non vengono prese in considerazione. Tutto suona vero e sincero, non amatoriale ma non di gomma, la fiamma nera arde sempre forte nelle dieci tracce di “1918” e le concessioni ai rallentamenti servono solo per far respirare le truppe della Guardia Bianca e quelle della Guardia Rossa, che se ne diedero di santa ragione sino a quel fatidico 27 agosto 1918, quando la Guardia Bianca la spuntò e la Russia bolscevica dovette riconoscere ufficialmente l’ indipendenza della Finlandia.
I cinquanta minuti di “1918” non sono di facile assimilazione, ci vuole lo stomaco duro perché qui la faccenda è seria, nessun ritornello radiofonico, nessuna trovata pirotecnica, qui si blasta duro, ma ciò non vuol dire che siamo al cospetto di un album monocorde: basta ascoltare la finale “Jumalan Palvelija”, dove si passa dalla ferocia del blast a un mid tempo epico, ai rallentamenti di base atmospheric, per poi sommergerti nuovamente con un’incalzante marcia verso la fine. Oppure canzoni come “Tuomittu”, dove la band enfatizza la sua vena più marziale e guerrafondaia, facendoci immaginare a occhi aperti scene di battaglie in sella a cavalli neri dagli occhi rossi come il fuoco. C’è pure spazio per la sperimentazione, come in “Kuoleman Kellot”, che rappresenta la traccia atipica in una tracklist che riserva sorprese ma senza mai discostarsi dall’animo nero del genere, anzi, rendendo sempre più oscuro e senza speranza il percorso di queste anime malate. I Graveborne confezionano un disco in maniera intelligente e sapiente, alternando con efficacia brani con i classicissimi stilemi del black oltranzista e primordiale ad altri più riflessivi, al limite della sperimentazione, ma senza uscire dal proprio campo di battaglia. Cosa ci offriranno con il prossimo lavoro non è dato a saperlo ma questo “1918” è un album ben fatto, da ascoltare tutto d’un fiato, che riesce nel suo intento di trascinare indietro di un secolo l’ascoltatore: e se appunto il 1918 fu la fine di una guerra, per i Graveborne ne è la data di inizio.