Il Sud America rappresenta per la scena estrema underground un mercato sempre più fertile e florido; pertanto ecco che pure i cileni Flesh Hunter And The Analassaulters timbrano il cartellino in questo bizzarro 2018. Lo fanno nel modo che conoscono loro, a suon di thrash black death metal di stampo ottantiano, derivativo al massimo ma che a noi, fondamentalmente, piace così. “The Plague” è la loro secondo fatica sulla lunga distanza e possiamo dire che i nostri non deludono le aspettative. Fare una retrospettiva sulla band risulta davvero inutile in quanto possiamo definire questi tre perversi cileni come una classica band “in your face”, cresciuta a birre low cost, film porno amatoriali, Venom, Onslaught e Celtic Frost. Un ottimo connubio se ci pensate bene, e da quelle variabili messe insieme può uscire solo un disco di metallo estremo di fetida fattura, al quale la parola underground sta addirittura stretta e da cui gli schizzinosi devono stare davvero alla larga. Le coordinate sono quelle tipiche del genere: velocità sostenuta per tutta la durata del platter, urla laceranti condite da qualche verso animalesco di contorno, ignoranza ai vertici della categoria ma, udite udite, abbiamo pure una certa attenzione alla melodia, che differenzia i Flesh Hunter And The Analassaulters da tutta la marmaglia che pesta come loro.
Il gruppo dice di prendere ispirazione dalle bands estreme brasiliane di fine anni ’80 e inizio ’90, ma, ascolto dopo ascolto, tra una bestemmia e un’imprecazione di Hell’s Profaner (voce e chitarra), riusciamo a captare in maniera sufficientemente costante linee melodiche che hanno un retrogusto di terra scandinava, senza tuttavia mai abbandonare quel filone hardcore/punk prettamente sudamericano, tanto caro a questi ragazzacci. Immaginiamoci spiagge con tanti bei bikini e palme, con una spruzzata non indifferente di fiordi e neve e qualche ubriacone con il chiodo e la cresta variopinta. Difficile, direte voi, ma effettivamente questi tre criminali dalle pance belle pronunciate, il face painting approssimativo, e una tecnica abbastanza primordiale, riescono a creare un connubio efficace tra questi elementi, che risulta addirittura piacevole in alcuni frangenti. Il disco parte subito fortissimo con “The Entity”, una mazzata di discreta fattura, nulla da dire: velocità sostenute e riff di puro stampo thrash che si mescolano al tremolo black più oltranzista. È poi la volta della quasi hardcore “Born To Be Rat”, che insieme a “Dawn Riders” è il pezzo più americano del lotto, con iniezioni diritte in vena di core e punk sputato con ferocia e prepotenza vandala, sempre presente ad altissimi livelli. “On The Path Of The Burning Ground” è la sorpresa del lotto: un cazzotto black che pare spedito in posta celere direttamente dall’estremo nord Europa con tanto di cori in clean vocals; una soluzione, utilizzata pure nella conclusiva ed evocativa title track, che spezza l’ascolto e lo rende meno monocorde, dandogli di sicuro più freschezza. Non pensiamo però di avere vita facile nel prosieguo del platter perché il resto dell’album scorre come se ci trovassimo in mezzo a una mattanza, dalla quale usciremo con le ossa rotte. L’unico spiraglio di luce è dato dalla strumentale acustica “The Drop Hollows The Stone” e poi i Flesh Hunter And The Analassaulters continuano le operazioni di massacro con gli ultimi due pezzi a disposizione, armi non convenzionali. Si arriva alla fine del disco con il fiato corto vista l’aggressività e la furia della proposta dei nostri amici; questo è un disco underground vero che, grazie alla produzione discreta, riesce a essere almeno più facilmente fruibile, ma con le dovute cautele. Di sicuro non si tratta di un disco fondamentale e neppure di un capolavoro del genere ma l’onestà della proposta fa sì che non possa non riscuotere un pizzico di simpatia all’ascolto che, in vari frangenti, mette pure in luce alcune soluzioni interessanti. Maneggiare con estrema cura, siete avvertiti.