Husk – Doom

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Oppressivo, fangoso, asfissiante, catacombale, ipnotico: questi gli aggettivi che vengono immediatamente alla bocca se si vuole tentare di descrivere il suono di questo “Doom”, prima fatica sulla lunga distanza del progetto nostrano Husk, creatura del factotum Summoner, che torna a farsi sentire a circa un anno di distanza dalla pubblicazione dell’ep di debutto “Fangs”, risalente appunto al 2017 e di cui questo album è il naturale e presagibile sviluppo. Il nostro continua a restare saldamente ancorato alle radici di un raw black metal tipicamente anni novanta, in parte però rivisto alla luce della reinterpretazione che negli ultimi anni diversi gruppi (e mi riferisco in particolare ai Deathspell Omega o anche agli ultimi Mayhem) hanno dato di questa impostazione classica e tradizionale: ecco quindi che nell’impasto musicale sinistro e spesso si fanno largo spezzettate e bizzarre dissonanze e nel muro sonoro, sporcato con qualche rigurgito death, si intravede qua e là una crepa vagamente melodica (sempre ossessiva, come nell’opener “Torment”). Come in molte delle uscite black metal underground di ultima generazione, anche qui troviamo una maggiore attenzione all’atmosfera generale creata dal disco nel suo insieme piuttosto che a questo o quel riff, a questa o quella linea vocale, tanto che si può tranquillamente affermare di essere di fronte ad un lavoro monolitico, come la statua cimiteriale raffigurata in copertina, che va fruito nella sua interezza, quasi che si trattasse di un’unica canzone suddivisa in sette episodi, modulati in maniera leggermente diversificata tra loro: e questo è, paradossalmente, sia il maggior pregio che il maggior difetto di questo lavoro, da un lato sicuramente apprezzabile per la sua compattezza, dall’altro forse criticabile per la sua staticità, soprattutto da parte di coloro che sono meno avvezzi a questo genere di sonorità, estremamente crude e virulente.

La produzione in realtà è molto meno approssimativa di quello che ci si potrebbe aspettare ed anzi l’ho personalmente apprezzata pur nell’innegabile grezzume di fondo, perché riesce comunque a dare pienezza sia alle furiose tempeste chitarristiche sia al cantato urlato e profondo, probabilmente accostabile più al growling che allo screaming propriamente detto, ma indubbiamente ben amalgamato nel contesto generale. Intenso e furibondo, “Doom” lascia anche spazio a qualche soffocante rallentamento, andando a dipingere con nere pennellate il quadro di un caos che solo a tratti sfocia nella ferocia cieca ed iconoclasta, rivelandosi invece per la gran parte della sua durata come una rappresentazione musicale piuttosto coerente e controllata dei personali incubi del suo autore: piacerà agli amanti del black metal più ruvido e polveroso, specialmente a quelli che non disdegnano le più attuali e variamente contorte rivisitazioni del genere.