I Sabaoth sono una delle pochissime realtà black provenienti dal Paraguay e questo album omonimo rappresenta il loro debutto sulla lunga distanza. Si tratta di un solido disco di black metal sinfonico vecchia maniera, concepito e pubblicato in un periodo in cui tale genere era all’apice della propria qualità, prima di ammorbidirsi e perdersi in un mediocre autocitazionismo. I punti di riferimento compositivi dei nostri sono gruppi che ai tempi godevano di una certa notorietà, come Hecate Enthroned e Mystic Circle, ma su tutte le composizioni aleggia l’ombra dei primi Dimmu Borgir e Cradle Of Filth, bands che oggi sono soltanto una sbiadita fotocopia di ciò che erano ai loro esordi. I Sabaoth non sono particolarmente originali, a parte un tocco marcatamente melodico che li contraddistingue rispetto a tutti i gruppi citati, ma osservano con personalità i canoni tipici del genere, dando corpo con maestria ad atmosfere lunari e notturne grazie soprattutto all’utilizzo massiccio delle tastiere, che intessono linee semplici ma efficacissime, sempre pulite e corpose, mai eccessivamente barocche (ascoltare per credere l’ottima coda strumentale dell’opener “Martyrium”, uno dei pezzi migliori del lotto). Questi tappeti di synth di ampio respiro si alternano a chitarre taglienti, che tornano protagoniste assolute nelle parti più tirate, molto spesso dal sapore thrash oriented. L’equilibrio tra violenza e passaggi più avvolgenti e lugubri costituisce la cifra essenziale di questo lavoro, che può tranquillamente trovare il suo posto nel gotha del symphonic black metal d’annata. Unica testimonianza autenticamente estrema di un gruppo che negli anni successivi ha preferito dirigersi verso lidi musicali completamente diversi, vicini al gothic alla ultimi Moonspell, con risultati non proprio esaltanti.
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