“In Goat We Trust” rappresenta l’esordio sulla lunga distanza per i parmigiani Whiskey Ritual, band tra le cui fila milita, in veste di batterista, Asher, già membro dei più noti Forgotten Tomb. I nostri definiscono il proprio stile, sfruttando una categoria di genere ultimamente forse abusata, “black’n’roll”, che è anche il titolo dell’opener-manifesto, canzone che riassume in poco più di quattro minuti le intenzioni programmatiche del combo nostrano. I Whiskey Ritual saccheggiano a piene mani gli ultimi Satyricon e i Darkthrone post “The Cult Is Alive”, ma tengono anche ben presente la lezione dei vecchi Venom (quelli di “Welcome To Hell” e “Black Metal”) e, soprattutto, degli immarcescibili Motorhead, band la cui influenza sulle nuove leve sembra veramente non avere confini. I nostri sono abili nel plasmare riff nervosi e granitici, dando decisamente più spazio all’elemento prettamente “metal”, ben veicolato da una produzione nitida e potente, rispetto a quello più propriamente “black”, che resta in secondo piano e si rivela soltanto in alcuni passaggi più canonici. Al di là delle trascurabili perplessità che l’unione impura di rock’n’roll e black metal potrebbe far sorgere in alcuni intransigenti dell’ultima ora, la formula risulta efficace nella sua semplicità ed immediatezza. Grazie a questa miscela esplosiva ed energetica i Wiskhey Ritual danno forma ad alcuni pezzi davvero irresistibili, come il già citato brano d’apertura, la title track, l’autocelebrativa “Whiskey Ritual” e la trascinante “One Million”, che vede la partecipazione come guest vocalist di Apollyon degli Aura Noir, altro gruppo ai quali per attitudine e sonorità i nostri potrebbero essere accostati. Vanno citate anche “Maryann” e “Legione D’Assenzio”, canzoni dall’andamento meno frenetico e dal testo più riflessivo rispetto agli standard dell’album, tutto incentrato, a livello lirico, sulla triade sesso-satana-alcol/droghe, argomenti che la band affronta non senza una certa dose di ironia. Se la scarsa originalità non è sicuramente un difetto che si possa imputare a questo lavoro, che vuole inserirsi nel solco di una certa tradizione senza inventare necessariamente qualcosa di nuovo, altri sono i rilievi che si possono muovere a questo debutto. La commistione tra sonorità “easy listening” e piglio black alla lunga stanca, specie nel momento in cui l’ispirazione non si mantiene ai livelli altissimi degli episodi sopra indicati; l’uso di una quantità incredibile di effetti sulle voci rende il cantato del singer Dorian Bones, la cui prova è comunque positiva, troppo innaturale e poco diretto (un maggiore grezzume a mio giudizio avrebbe giovato, anche nella registrazione). Siamo comunque di fronte ad un disco che centra il proprio obbiettivo: nudo, crudo, violento e incazzato, da ascoltare possibilmente in stato di ubriachezza e che, nella riproposizione dal vivo, risulta esaltante, come ho avuto modo di constatare di recente. Un gruppo da tenere d’occhio per il futuro.
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